Grandi Voci


  ROMA
GIARDINI DI CASTEL SANT'ANGELO
26 LUGLIO 2001



Dr. Gilberto Di Petta

PRESENTAZIONE
alla
II edizione del libro del Prof.
BRUNO CALLIERI

“QUANDO VINCE L'OMBRA”
ED. UNIV. ROMANE
ROMA 2001






Gentilissime Signore,
Signori,
Illustre Prof. Callieri, caro Maestro,

è sera. Come adesso. Anzi, è già notte. E' un'ora, questa, in cui l'ombra ha già vinto.
Capita, da qualche parte, in un'ora come questa, ma non sorella a questa, che un uomo incontra un altro uomo. Un altro che è finito in un gorgo. A volte, se uno chiama qualcuno, c'è qualcun altro che, ancora, risponde. Allora capita, anche, che i profili di questi uomini si con-fondono. Nella semioscurità. Ad un tratto uno dei due accende una sigaretta e illumina gli occhi dell'altro. Li incontra, quando vengono a sé.
E' la corsia di un ospedale. E le luci di notte sono accese. E' un pronto soccorso disadorno. Mentre i chirurghi cuciono i feriti. E' il silenzio di uno studio. E' per strada. E' a casa di chi, soffrendo, chiede aiuto. Il televisore è acceso. Sul gas brucia ancora, per conto suo, il pranzo non più consumato.
Ma chi sono questi uomini, l'uno di fronte all'altro, apparentemente immobili, come statue scolpite nell'atto di un colloquio, nella mutevolezza del mondo ?

Uno è un medico, o uno psicologo: ma questo non ha, poi, molta importanza.
Per intenderci, uno dei due è un clinico. E', cioè, uno psico-patologo.
L'altro, invece, è un uomo costretto, la sua catena si chiama angoscia. E' oscillante, come una canna sottile, battuta dal vento.
Nevrotico, psicotico: non importa, in fondo, neanche questo. l'altro sta vivendo una situazione-limite (cfr. Jaspers) che non trova, oggi, più nessun nome nelle correnti classificazioni nosografiche della psichiatria americana.
Chi, invece, come Bruno Callieri, si è formato alla psicopatologia clinica dell'Europa continentale, ha molti nomi per chiamare la situazione-limite di questi incontri : “perdita dello stare”, “crepuscolo del mondo”, “aurora delirante”, “vertigine della libertà”. Se ciò che nasce come incontro tra due uomini, allora, diventa l'incrocio di due viandanti, è solo perché la vita umana, come dice Callieri ha proprio la forma della via.

Si guardano, questi due uomini, come si toccassero. Si toccano, in effetti, con lo sguardo. Tacciono. Parlano. Le lacrime sono le parole che il silenzio sa dire. Uno dice, a tratti, uno ascolta. Uno grida. L'altro, a modo suo, risponde. Nessuno dei due sa di più. Sullo stesso piano, compagni di strada. Pellegrini di una meta ignota. Di un viaggio forse senza destino. Naufraghi alla deriva. Giocatori d'azzardo travolti dalla stessa scommessa.
“Quando vince l'ombra” altro non è che la trama di molti di questi incontri-al-limite. Dentro queste righe, pagina dopo pagina, chi si inoltra a mo' di viandante, può seguire l'orma sulla neve lasciata da un uomo, da un clinico, che è andato da solo, lontano e lungamente a piedi per le vie di tutti i mondi possibili. “Questo mio studio - ha detto un giorno Callieri - vuol essere una guida più al mistero che alla conoscenza, più al rispetto che alla conquista, più al percorso che alla meta.”

Lo spazio di questi strani incontri a poco a poco sfuma. Da cubatura geometrica si fa spazio vissuto. I contorni si perdono e l'ambiente si colora della tonalità dell'esperienza che chi parla, vive. Che chi ascolta, di fronte a chi parla, rivive.
L'ora non conta. Il tempo è solo quello vissuto (cfr. Minkowski). Psicopatologo e malato si comprendono. La clinica dell'uno ha fatto suo il dolore dell'altro. Le sue parole, slabbrate dall'angoscia. Il suo mondo, il suo corpo, la sua presenza (il suo Dasein), il suo odore, i suoi gesti. Il clinico e il malato sono, dall'inizio alla fine, il loro stesso colloquio (Hoelderlin).
Poi si lasciano. Seguirà un altro incontro. Altri incontri. Forse nessun altro incontro. Ognuno di loro due se ne va via con qualcosa di meno : lascia sé stesso come una parte dell'altro. E si ritrova, dentro, qualcosa di più : l'altro come una parte di sé, forse la migliore, spesso la più irriconoscibile.

Incontri assai semplici, fatti di corpi e di sguardi, di luci e di ombre, senza nessun test psicodiagnostico e nessuna indagine di laboratorio o strumentale: oggi, come si collocano questi incontri nel panorama del mercato sanitario? Che ticket bisognerebbe far pagare all'utenza per un incontro così? Come si oggettiva questa prestazione? Come si codifica sui moduli delle ASL o delle compagnie di assicurazione?
Eppure sono solo questi incontri al limite, a tratti addirittura inafferrabili, a rivelare che qualcosa, mentre tutte le luci di quella festa a volte assai stupida e vuota che è la vita si spengono e l'ombra vince, a rivelare – dicevo – che qualcosa ancora brilla : c'è sempre in gioco un essere umano, la cui libertà non si può ammalare, perché la libertà non si ammala; e che non può morire, perché la libertà non muore.
C'è sempre in gioco una storia, la sua propria, quella di quell'uomo lì, che neppure la malattia cancella, anzi, semmai, incisivamente e solo per chi sa leggerla, scrive (cfr. Binswanger). Lo psicopatologo rivela, in questo modo, esistenze che portano strappi che le rendono vive e vissuta, egli scova, a tratti, la perla, nel difetto della conchiglia

La struttura intimamente umana di questi incontri, come una cifra, è presente in ogni situazione clinica, perché affonda le sue radici in un modo-di-essere insieme, l'uno di fronte all'altro, che appartiene all'uomo come il camminare, come il guardare, come il toccare, come l'annusare. Lo schizofrenico è lontano, pensava Emil Kraepelin, perché è racchiuso come una piccola goccia di fuoco in un grande barile di ghiaccio.
Callieri ci fa avvertire, negli incontri al limite che ci racconta, incredibilmente, tutto il calore di quella goccia di fuoco che arde al centro del barile di ghiaccio.


Un giorno di dieci anni fa, un giovane medico, specializzando nelle malattie nervose, incontrava un illustre clinico di passaggio in un piccolo Centro di Salute Mentale alle pendici del Matese. Quel giovane medico folgorato dall'incontro con il vecchio clinico che invece di mostrargli numeri gli lasciava semplicemente palpitare, dentro, i vissuti di mille incontri così, mai uguali a se stessi, ignorava di stare incontrando, in quell'incontro, il suo destino. Quel clinico che amava presentarsi come un viandante “sul viale del tramonto” riusciva a conferire ad alcune tragiche esperienze vissute, la luce intensa di segni. Così la schizofrenia, la mania, la malinconia diventavano, a mano a mano che il giovane ascoltava il clinico raccontare, invece che emblemi del disordine e dell'incomprensibilità, luoghi della possibilità e, a volte, anche, metafore della libertà.
Quel giovane ero io.
Quel clinico era lui.
Vecchio non di età ma di un sapere vissuto.
Aveva, quell'uomo, ha, Bruno Callieri, il fascino di colui che copre nell'arco di una vita tutto Novecento, di chi ha conosciuto Jung a Zurigo e Minkowski a Parigi, Schneider, Zutt e Blankenburg ad Heidelberg, e poi, ancora, Jaspers, Kleist, Lhermitte, von Gebsattel, Tellenbach, Manfred Bleuler, Henri Ey.

Provenivo da un manicomio. Quel giorno di dieci anni fa. Portavo, dentro di me come segni indelebili, gli occhi di vitrei di Bonaria e di Maria, il modo lunghissimo in cui Bianca si guardava le mani. Il lampo di Amelia che precedeva la sua incontenibile tempesta motoria. La figura esile e tragica di Giselda che passava, silenziosa e continua, tutte le sere lungo i muri dell'ormai cadente ospedale psichiatrico. Mi portavo dentro ciò che restava di quell'ultima grande nave dei folli che si andava, in quegli anni del dopo Riforma, lentamente inabissando. Gli ammalati erano come naufraghi, presenze sparenti che vagavano tra le rovine di un mondo, senza più neppure la certezza di quell'ultima dimora che un giorno lontano la storia aveva loro consegnato.
Ero entrato in quel manicomio – come diceva Kierkegaard - per vedere se la profondità della follia potesse spiegarmi l'enigma della vita.
In realtà il fetore di urina, il piantone, cioè la gabbia delle ammalate agitate che le infermiere chiamavano “fossa dei serpenti”, l'immobilità, la tragedia di esistenze incenerite in un piatto deserto di polvere e silenzio, unitamente all'attenzione che, già in quegli anni veniva posta sulle molecole chimiche mi avevano fatto provare, acuta e amara, la sensazione di avere sbagliato percorso. Forse avevo intrapreso lo studio della follia sulla spinta di un ideale romantico, qualcosa che, se mai era esistito, non esisteva ormai più.
Il modo di vivere la psicopatologia clinica di cui Callieri si faceva interprete, invece, mentre lo ascoltavo, quel giorno e tutti gli altri giorni che l'ho ascoltato, accendeva dentro di me l'immobilità del mondo lunare, senza gravità, di Bonaria e di Maria, e il mondo vissuto di Bianca, silenzioso, sommerso, come un fondale marino, le tempeste motorie di Anna. Finalmente, dopo anni, comprendevo. Potevo ricominciare, a partire da quelle tracce, a sopravvivere a tanta perdita di senso perché potevo leggere, dopo l'interruzione del sentiero, i segni che mi portavano, oltre il non senso, verso quell'altro senso che, nascondendosi, si rivelava. Cominciavo, in realtà, tra le parole di Callieri, a cogliere, semplicemente, l'uomo laddove, all'università, ero stato addestrato a cogliere solo un inesorabile guasto.
Quell'estate partii per le vacanze con tre libri nello zaino “Psicopatologia generale” di Karl Jaspers, “Psicopatologia clinica” di Kurt Schneider e “Quando vince l'ombra” di Bruno Callieri. Tre nomi che, ora che li pronuncio, mi paiono sigillare la migliore psicopatologia del Novecento. Allora, tra le altre, erano due le cose che particolarmente ignoravo : che a questi tre libri e a questi tre nomi sarei sempre ritornato, come Ulisse ad Itaca, dopo ogni fuga e dopo ogni tradimento.
E, la seconda, che un giorno proprio io sarei stato qui, a Roma, a presentare uno di questi libri, quello, forse, che per certi versi li comprende e li supera entrambi, indegnamente seduto accanto al suo Autore, diventato poi il mio più insostituibile maestro.
Ignoravo che l'incontro con Bruno Callieri avrebbe impresso alla mia vita di giovane ardente di conoscenza e di esperienza una svolta significativa : mi avrebbe fatto diventare un clinico, ovvero, nel linguaggio fatto proprio da Callieri, un viandante continuamente alla deriva tra i mondi della vita, un infaticabile cercatore di senso.
“Quando vince l'ombra” è la possibilità, per chi ha in mente di intraprendere la via della clinica, di accostarsi alla grande tradizione della psicopatologia francese e tedesca, e a quelle tre grandi correnti del pensiero contemporaneo che sono l'esistenzialismo, la fenomenologia e l'ermeneutica, incredibilmente calate nella dimensione concreta, unica, ineludibile dell'incontro clinico, che è sempre, comunque, incontro di me e di te insieme qui e adesso.
E' sicuramente, quello indicato da Bruno, mi consenta, solo in questa serata particolare, il mio Maestro di chiamarlo per nome, un itinerario controcorrente. Questi incontri che egli ci lascia sono come le piccole uova che il salmone ha deposto controcorrente, dopo aver affrontato le cascate del delirio e le rapide dell'allucinazione. E' una via, questa da lui segnata, che si fa a piedi e in salita. Senza risarcimenti e senza sconti. Lo psicopatologo clinico e il malato diventano, dalla prospettiva di Callieri, compagni che insieme si inoltrano, senza rimpianti, dentro un'immensa terra incognita. Là dove il bosco si chiude, senza radure, dove il sentiero si interrompe. Dove l'istante cristallizza e precipita. Dove la terra trema e la montagna incombe. Essi si giocano tutto, ad ogni passo; essi si congedano, insieme, incamminandosi al tramonto dalla terra perduta del senso comune e, insieme, cercano di dare alle cose un senso nuovo ancora possibile, di cucire brandelli, di riannodare monconi, di raccogliere, tra ciò che è franato e tra ciò che è incenerito, semplicemente ciò che resta. Ciò che conta. Ciò che ancora e per sempre significa qualcosa.

I malati che Callieri incontra in “Quando vince l'ombra” sono, quindi, per me, figure indelebili, perché, grazie al modo in cui egli li ha incontrati, essi sono e rimarranno sempre vivi.
Che resta oggi, ancora mi domando, che è restato, e, soprattutto, che sarebbe restato di Edmondo, operaio saldatore di 27 anni, che si sentiva cambiato da una ventina di giorni, attonito, perplesso, smarrito, che misurava e rimisurava i pezzi da saldare e li trovava ora più lunghi, ora più corti; che ne è stato di Remo, di 29 anni, che un giorno uscì di casa e gli sembrò buio, con le nuvole basse e senza le luci della sera; che ne è stato di Paolo, laureato in legge di 24 anni, che non usciva più di casa convinto che il mondo si stava muovendo contro di lui; che ne è stato di Adalberto, di 21 anni, carabiniere, che da un po' di giorni non capiva più nulla e pensava di essere Gesù Cristo; che ne è stato di Mario, 25enne studente, che ebbe l'impressione che la terra fosse poggiata sul campanile della chiesa; che ne è stato di Franca, casalinga di 39 anni, che da venti giorni aveva l'impressione che le accadessero cose strane; che ne è stato di Guido, che dopo la morte del suo canarino ha cominciato ad avvertire il cammino dei parassiti sulla pelle delle sue gambe; che ne è di Giorgio, contadino di 37 anni, divorato da migliaia di animali piccolissimi, come palline tonde, bianchissimi; Che ne è di Mario, autista di 52 anni, che si versò la benzina sul petto per dar fuoco alle sue pulci immaginarie.
Callieri ci mostra, testimone silenzioso sulla soglia dell'ombra, ancora il terrore dei loro volti che fissano, attoniti il disastro che li sta travolgendo. Le loro esistenze che si sporgono sull'orlo di un precipizio, l'irruzione dell'assurdo nelle pieghe di una quotidianità fino ad allora apparentemente e assolutamente normale. Ci fa ascoltare le voci che li assediano, ci fa vedere le ombre che li perseguitano.
Erano gli anni Cinquanta e Callieri, dalla Neuro di Roma, attraverso queste pagine, ci consegna vite colte sulla soglia del loro dissolversi ma che si preparavano, anche, alla resurrezione delirante. Invece di consolarsi con ipotesi etiopatogenetiche suggestive, che gli avrebbero senz'altro valso la cattedra universitaria, ipotesi che la ricerca scientifica successiva avrebbe puntualmente falsificato e, per giunta, senza fare mai ricorso al concetto di un inconscio magmatico e omnicomprendente, Callieri incontra queste presenze a mani nude sul piano radicale di una umanità pura, afferrando tutto ciò che può, guardando, ascoltando, curando, e raccogliendo le schegge incandescenti di deliri e di allucinazioni, di suicidi e di chiusure autistiche, di perplessità stranite e di tristezze senza fondo.
Oggi questi uomini, grazie al lavoro e all'umanità di Bruno Callieri, stasera sono con noi, non del tutto spariti, come invece tanti altri, nel nulla dell'ombra che li ha avvolti, o dentro la fossa comune di migliaia di altri malati raggruppati sotto la stessa etichetta diagnostica e curati con la stessa fialetta o pilloletta.
Essi parlano, in questo testo, e ci raccontano cose che non sono mai state raccontate da nessuno. Ciò che essi hanno vissuto, come la stessa morte, diventano, grazie a quest'opera, a pieno titolo, esperienze inscrivibili nell'arco della vita. Di una qualunque vita umana. Anche, perché no, della nostra stessa vita.
Questo libro apre alla follia come minaccia immanente alla possibilità dell'esser uomo, ma anche come ultimo e unico modo possibile di essere del singolo uomo nel suo mondo, e, infine, come ombra che può calare, improvvisamente, su ognuno di noi.
Questo libro non chiude, a mio avviso, un modo di essere e di fare gli psichiatri che potremmo definire ormai classico. Al di là, quindi, della nostalgia e del fascino per un'arte clinica antica esso apre, piuttosto, a mio avviso, all'unica possibilità di rimanere clinici e di essere uomini che sanno stare di fronte ad altri uomini pur nella meccanizzazione del mondo e nell'alienazione della follia.


Grazie, Maestro, di questo grande contributo, grazie, ancora, del nostro incontro, grazie di continuare ad indicarci, pur nella densità dell'ombra, il senso di quella via che, come dice Machado, ognuno di noi è costretto a farsi solo andando.


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